L’arte di compiacere l’altro: anassertività passiva

Quante volte ci chiediamo: di cosa ho bisogno? Cosa desidero?

Molto spesso si rimane basiti e bloccati di fronte a queste domande. Forse non si è abituati a porsi dei quesiti così semplici, ma allo stesso tempo così potenti. Si, potenti. Perché smuovono tutto un mondo interiore che siamo abituati a tenere sopito per assecondare ciò che il mondo intorno si aspetta da ognuno di noi. E di certo molto spesso ci si aspetta di apparire in un certo modo nascondendo la nostra natura più intima e quindi i desideri e i piaceri che ci renderebbero felici e in pace con il nostro intimo e sicuri di affrontare gli eventi esterni. 

Siamo abituati a nasconderci dietro le “buone maniere”, dietro l’immagine del “bravo ragazzo” o della “”brava ragazza”. Ci sono cose che si devono fare e che non si devono fare. Ecco che spunta come un macigno subdolo e inconsistente la doverizzazione. Devo comportarmi in questo modo, devo fare questo o quello, devo dire o non dire solo perché ci si aspetta che faccia così.

Siamo così abituati a queste modalità comportamentali che iniziamo a non sentire più ciò di cui abbiamo bisogno. Si iniziano a reprimere le nostre emozioni, la nostra vera natura, la nostra essenza più vera. Cosa intendo dire?

Avete mai pensato alla spontaneità che hanno i bambini di fronte al mondo esterno, di fronte all’Altro? E’ così forte da lasciare tutti stupefatti e molto spesso imbarazzati. Non si sa cosa rispondere di fronte alle domande “bianche” dei bambini. 

Questo perché iniziamo a “formarci” al volere del costume sociale da quando siamo piccoli. Cosa si deve e non deve fare senza spiegazione alcuna. Senza una mentalizzazione delle proprie emozioni. Allora si predilige insegnare  un comportamento socialmente accettabile piuttosto che far riflettere sul perché ho compiuto uno o l’altro comportamento. 

Questo indubbiamente genera una sorta di anestesia perenne che ci porta a vivere come si deve, a comportarci come gli altri si aspettano senza chiederci cosa davvero mi da brama di vivere.

Chi arriva in psicoterapia esordisce spesso con la sintomatologia di tipo ansioso o depressivo, ma senza sapere che cosa è che lo porta a sentirsi così. “Sto male ma non so cosa mi fa stare così male!”

Disagio interiore e sintomatologia clinica

Come si inizia a sentire il proprio malessere?

La prima sintomatologia è spesso di tipo fisico: sentire un peso sul petto, sentire le gambe pesanti o le caviglie indolenzite prima di recarsi in un luogo (che sia il lavoro, oppure la casa familiare o ancora la visita di alcune persona con le quali si intrattengono relazioni solo di “facciata” perché così appunto ci è stato insegnato).

L’insonnia. Non riuscire ad addormentarsi oppure avere numerosi risvegli durante la notte prima di un evento che ci attende il giorno successivo.

Dolori cervicali o dolori al viso. 

Il nostro corpo ci parla. 

La sintomatologia ansiosa si manifesta in mille sfaccettature diverse, che clinicamente possiamo chiamare attacchi di panico, ansia generalizzata, fobie specifiche. Ma tutte ci dicono che qualcosa non va nella gestione della nostra vita emotiva. Si, l’ansia ci blocca ma allo stesso tempo ci parla. I sintomi ci dicono tante cose e ci invitano ad una riflessione profonda sul nostro percorso di vita. Ci invitano a fermarci e non a bloccarci. Ci invitano a cambiare direzione ed affrontare la paura. La paura di cambiare. La paura di prendere una decisione diversa da quella assunta fino a quel momento anche se non è quello che l’Altro si aspetta da noi. 

Un’altra manifestazione di disagio è il comportamento rabbioso verso se stessi e verso il mondo esterno. Rispondere con rabbia e impulsività alle richieste esterne o interne (mettendole così a tacere bruscamente). “Sono sempre stata una persona pacata e da un po’ di tempo ho delle reazioni sproporzionate alle richieste sociali”. “Litigo con tutti per qualunque cosa”.

Qui passiamo dalla passività all’aggressività. Due facce della stessa medaglia che è appunto l’anassertività.

Quando non so leggere le mie emozioni le posso mettere a tacere assecondando ciò che gli altri si aspetterebbero da me (passività). Ma le emozioni non vanno via, restano lì, dentro di noi, sospese. E all’improvviso esplodono come un fiume in piena senza dare tregua, rovinando quella serenità apparente che mi sono costruito per stare al mondo.

Assertività

Un percorso di psicoterapia ci aiuta inizialmente a fermarci e mettere nello spazio terapeutico tutto ciò che non accetto di me stesso.

La relazione terapeutica ci permette di empatizzare con le parti più nascoste, con le emozioni più forti e troppo pesanti per poterle accettare ed esprimere. 

Imparare a leggere le emozioni significa proprio iniziare a rispondere alle domande dell’incipit. Di cosa ho bisogno? Cosa mi da piacere? Qual è la relazione con il mio mondo interno? Sembrano domande così semplici e banali ma hanno una potenza emotiva che può portare a cambiare radicalmente la mia vita in qualunque momento.

Cosa significa essere assertivi quindi?

Significa che posso ascoltare il mio desiderio e imparare a rifiutare una richiesta che non sono pronto ad affrontare oppure non mi rappresenta. Significa che ci sono molti modi per essere in disaccordo con l’Altro ma non per questo mettere in atto una comunicazione passiva per paura di non compiacere l’Altro o una risposta rabbiosa per allontanare da me ciò che sento minaccioso per la mia salvaguardia.

BIBLIOGRAFIA

A. Contardi, B. Farina, M. Fabbricatore, S. Tamburello, P. Scapellato, I. Penzo, A. Tamburello, M. Innamorati, Difficoltà nella regolazione delle emozioni e disagio personale nei giovani adulti con ansia sociale, Riv. Psichiatria, 2013, Vol. 48, N. 2 pagg. 155 – 161

F. Baggio, Assertività e training assertivo. Teoria e pratica per migliorare le capacità relazionali dei pazienti. Edizioni Franco Angeli, Milano, 2013

M. Giannantonio, Mi vado bene? Autostima e assertività. Edizioni Erikson, Roma, 2009

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