“Avrei potuto farlo ma non l’ho fatto”: il senso di colpa del sopravvissuto

Il senso di colpa è generalmente definito come la spiacevole sensazione di essere in difetto per aver causato un danno per azione o omissione nei confronti di altre persone o per aver trasgredito una norma morale, accompagnata dalla credenza che si sarebbe potuto agire, pensare e sentire in modo differente sulla base di un set di standard e modalità di condotte interiorizzate. Si verifica di solito quando l’individuo è convinto di aver compromesso i propri standard di condotta o di aver violato gli standard morali universali e di avere la piena responsabilità, effettiva, presunta o prevista, di tale violazione. Si manifesta con sensazioni di oppressione, angoscia per l’altro, sensazione di non essere a posto o di essere degradato o sporco e presenta delle tipiche tendenze all’azione, quali  l’aspettativa di poter essere punito, l’evitamento delle gratificazioni, l’avvicinamento all’altro con il fine di chiedere perdono, confessando quanto successo, la motivazione a riparare e l’agire nell’ottica di prevenire altre colpe.

Un particolare tipo di senso di colpa è quello del sopravvissuto. Il senso di colpa del sopravvissuto è sperimentato solitamente a seguito di eventi traumatici a cui si è assistito o di cui si è stati vittima e ai quali si è sopravvissuti. L’individuo sperimenta un senso di colpa paralizzante perché sente di vivere una situazione privilegiata a spese di qualcun altro o rispetto a qualcuno che sembra essere stato danneggiato, perché percepisce di non aver fatto tutto quanto in suo potere per prevenire la catastrofe o le conseguenze. Alcuni autori hanno affermato come lo sperimentare senso di colpa in seguito ad un evento traumatico può essere inteso come un’esternalizzazione della paura ed è legata ad un senso di impotenza e di perdita di controllo al momento della catastrofe. 

Strettamente collegata al senso di colpa del sopravvissuto è l’autoaccusa, in quanto più le persone credono che avrebbero potuto agire diversamente, tanto più si accusano per l’accaduto. Questa autoaccusa può essere di due tipi: caratteriologica e comportamentale. La prima dipende strettamente dal carattere del soggetto, che tende a valutarsi in maniera globale e generale (ad esempio “sono cattivo”, “sono stupido”). La seconda invece è legata alla percezione di controllo e dipende dall’azione messa in atto o mancata che ha provocato l’evento, presentandosi con le espressi “se avessi fatto …”, “se non avessi fatto/detto …”. Chi sperimenta il primo tipo di autoaccusa, quella caratteriologica, è maggiormente incline a sperimentare un senso di colpa globale, e ad attribuire il fallimento ad un’assenza di abilità, a differenza di chi sperimenta autoaccusa comportamentale, che invece si sente colpevole in risposta ad un’esperienza specifica e circoscritta e tende ad attribuire il fallimento ad un’assenza di sforzi.

Di riflesso, la percezione di controllo dell’individuo cambia. Se il soggetto attribuisce le cause di quanto accaduto alle proprie abilità o alla mancanza delle stesse allora sviluppa e si lascia guidare dalla credenza di non poter fare nulla per modificare la situazione, sentendosi così impotente, mentre se attribuisce la causa dell’evento agli sforzi crede che il cambiamento sia possibile, percependosi in grado di poter intervenire sulla situazione. La percezione di un maggiore controllo, guidata dalla credenza di poter intervenire attivamente sulla situazione per modificarla, consente ai sopravvissuti di trovare un senso al loro essere vittima, comprendendo il significato che quanto accaduto ha per la loro vita e per le persone coinvolte. Il ricorso alla strategia di autoaccusa comportamentale comporta risposte di coping più positive rispetto all’autoaccusa caratteriologica, in quanto il soggetto può percepire di aver commesso qualcosa di cattivo o di sbagliato, senza pensare di essere una persona sbagliata o cattiva, al contrario di chi sperimenta autoaccusa caratteriologica, che si percepisce come persona cattiva per essersi comportata in maniera cattiva, in virtù del fatto che chi sperimenta un’autoaccusa caratteriologica deve necessariamente mostrare anche un’autoaccusa comportamentale.

In chi sperimenta questo tipo di senso di colpa, intervengono diverse distorsioni cognitive o determinanti della colpa:

  • Errori di pensiero che portano a conclusioni errate sul grado di responsabilità
  • Non essere consapevole di tutti gli elementi che hanno determinato l’evento e assenza di sforzo nel valutare il contributo reale dei fattori causali
  • Far equivalere la credenza che si sarebbe potuto fare qualcosa di diverso per prevenire l’evento alla credenza di aver causato l’evento, non riconoscendone le differenze.
  • Errori di pensiero che portano a conclusioni errate sulla giustificazione delle azioni messe in atto
  • Non riuscire a riconoscere che in situazioni acute vengono messi in atto sistemi di decision making differenti, più automatici e veloci, rispetto a quelli a cui si ricorre in situazioni che richiedono di valutare tra più alternative.
  • Mettere sullo stesso piano un comportamento messo in atto in una situazione acuta e le alternative a cui era possibile pensare solo dopo un’attenta disamina. Alla base di questo errore di pensiero vi è la falsa credenza secondo cui si è in grado di prevedere un evento correttamente ormai quando l’evento è noto.
  • Errori di pensiero che portano a conclusioni errate sulla percezione di aver compiuto una cattiva azione
  • Giungere alla conclusione di aver compiuto una cattiva azione sulla base dell’esito piuttosto che delle intenzioni.
  • Non riuscire ad essere consapevoli che non si ha il controllo volontario delle emozioni intense e colpevolizzarsi per questo.
  • Non riuscire a riconoscere che scegliere tra tante opzioni con conseguenze negative quella che appare meno cattiva è la scelta più morale che si possa fare.
  • Credere che la reazione emotiva ad un’idea possa essere informativa della validità dell’idea stessa.

Il senso di colpa del sopravvissuto può essere sperimentato anche quando il soggetto,  mosso  da  desideri  e  obiettivi  sani  si  scontra  contro  rappresentazioni  anticipatorie  e  interiorizzate  dell’altro  che  soffre  o  che  potrebbe  soffrire,  che  è  danneggiato  o  che  critica  moralmente.  Quando l’altro reagisce in maniera negativa, conferma le rappresentazioni di sé profondamente negative e intollerabili e l’individuo inizia a costruire immagini di sé come cattivo, sleale, disonesto, immorale, egoista e sperimenta senso di colpa, mettendo in atto diverse strategie di coping disfunzionali. Può, per esempio, rinunciare al perseguimento dei suoi scopi, inibire l’intensità dei propri desideri e abbandonare ogni tentativo di realizzarli. Inizia a chiedersi cosa sarebbe più opportuno fare e induce a scegliere tra l’omissione e la commissione sfociando nel blocco dell’azione, abbattendosi e ritirandosi dalla relazione.

La terapia cognitivo comportamentale risulta essere un trattamento efficace nel ridurre il senso di colpa, in quanto la colpa origina dal modo in cui la persona valuta e interpreta l’evento. Attraverso l’assessment, gli esercizi di esposizione immaginativa e la correzione degli errori di ragionamento che portano a conclusioni erronee associate alla colpa, la persona viene messa nella condizione di distinguere il passato dal presente, di diventare più consapevole dei pensieri e delle credenze alla base del senso di colpa, arrivando a formulare interpretazioni più realistiche di quanto accaduto, avvalendosi ad esempio della ristrutturazione cognitiva. Alla riduzione della colpa potrebbero contribuire anche pratiche di self-compassion e accettazione che mettono la persona nella condizione di essere più compassionevole, più gentile e meno giudicante nei suoi confronti, di integrare l’esperienza vissuta nella sua storia di vita e di sviluppare una maggiore capacità nel controllare pensieri ed emozioni piuttosto che identificarsi con essi, legittimando anche l’accesso ai propri desideri e aprendo la strada per la loro realizzazione.

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