In una fase della vita, come quella adolescenziale, in cui il compito principale dell’individuo è lo sviluppo di una nuova identità, un’identità non più bambina ma che si appresta a divenire adulta e in cui i cambiamenti fisici insieme a quelli cerebrali divengono preponderanti, l’autolesionismo appare un fenomeno sempre più allarmante. Si parla di agiti volti a recare danni al proprio corpo procurando sanguinamento, lividi, cicatrici e dolore e non necessariamente sono collegati al desiderio di togliersi la vita, tuttavia costituiscono uno dei fattori di rischio per condotte suicidarie. L’autolesionismo tra gli adolescenti usualmente si manifesta attraverso le seguenti modalità:
- tagliarsi;
- colpirsi;
- mordersi/grattarsi;
- strapparsi i capelli;
- bruciarsi.
Tra la popolazione adolescenziale senza disturbi psichiatrici l’autolesionismo non suicidario interessa dall’1,5% al 6,7%, mentre tra coloro che soffrono di disturbi psichiatrici il 60% manifesta episodi singoli e il 50% episodi ripetuti. Anche se il fenomeno in questione può manifestarsi singolarmente, esso spesso può essere associato alla psicopatologia, in particolare:
- Disturbi dell’umore;
- Disturbi del comportamento alimentare;
- Uso di sostanze;
- Disturbi del comportamento;
- Disturbi di personalità.
PERCHE’ CI SI FERISCE?
L’autolesionismo, come mostrano i dati sopra riportati, sta dilagando tra i giovani, divenendo quasi un fenomeno di tendenza, spinto dal potere emulativo e dall’esigenza di appartenenza a un gruppo con identità ben precisa, entrambi elementi caratterizzanti di questa fascia d’età. Pertanto la scelta di valori su cui basare la creazione della propria identità è un argomento di cruciale importanza e che meriterebbe una riflessione e approfondimento all’interno del sapere psicologico. Dunque nella maggior parte dei casi le condotte autolesive fungerebbero da risposte regolatorie di vissuti emotivi forti e poco piacevoli. Rabbia, ansia, dolore emotivo, difficoltà interpersonali, divengono ostacoli insormontabili a tal punto che farsi del male può avere una funzione di evitamento, ovvero servirebbe a “non sentire” l’affettività negativa. Il comportamento autolesivo in questi casi può assolvere anche a una funzione analgesica in cui il dolore fisico diviene più sopportabile, in grado di alleviare un dolore emotivo, invece percepito più intensamente.
Un altro valore attribuito all’autolesionismo è quello autopunitivo, nei casi in cui alla base ci siano forti sensi di colpa e un atteggiamento ipercritico nei confronti di se stessi.
L’autolesionismo, inoltre, potrebbe costituire anche una modalità comunicativa che l’adolescente ha sperimentato come efficace per mostrare all’esterno il proprio disagio. In questo caso la ferita sul corpo diventa qualcosa di maggiormente visibile, quando altri sistemi comunicativi come la parola sono carenti o non accolti.
L’autolesionismo nelle sue manifestazioni estreme può sfociare in comportamenti suicidari, che si collocano all’estremità del continuum delle condotte autolesive. Tuttavia occorre specificare che le condotte autolesive con le finalità sopra indicate sono più frequenti e meno gravi rispetto ai comportamenti messi in atto nel suicidio. Appare rilevante citare una meta – analisi che ha revisionato 71 studi precedenti e pubblicata su Lancet Psychiatry che suggerisce un collegamento tra il fenomeno oggetto qui di discussione e la trascuratezza emotiva subita in età infantile dai soggetti con autolesionismo. La trascuratezza emotiva può includere una vasta gamma di atteggiamenti di chi fornisce cure come ipercriticismo, perfezionismo, lassismo, che quando reiterati nel tempo procurano al bambino una frustrazione di bisogni emotivi primari e che costituirebbero esperienze traumatiche in grado di modificare le strutture cerebrali.
COME LI AIUTIAMO?
Innanzitutto l’adulto, in qualità di genitore, insegnante e specialista che ha a che fare con questa problematica dovrebbe assumere un atteggiamento non giudicante nei confronti del comportamento autolesivo in modo da facilitare nell’adolescente l’apertura e il dialogo. Spesso è necessario mettere in atto misure di controllo e protezione in casa e a scuola come non rendere facilmente reperibili farmaci, armi o altri oggetti potenzialmente pericolosi. L’intervento con l’adolescente dovrebbe essere in ottica multidisciplinare e multisetting, ovvero andare a coinvolgere più professionisti e più ambienti/ figure di riferimento del ragazzo. Al momento non vi sono farmaci specifici per il trattamento dell’autolesionismo, anche se questi possono essere somministrati in caso di presenza di altre psicopatologie associate.
Lo scopo del trattamento psicoterapeutico è:
- Abbassare il rischio suicidario;
- Ridurre e/o eliminare i comportamenti autolesivi e qualora presenti altri comportamenti a rischio;
- Incrementare abilità sociali;
- Incrementare alternative abilità di fronteggiamento di situazioni problematiche e abilità di regolazione emotiva.
In particolari gli interventi psico-sociali che hanno dimostrato una maggiore efficacia sono la terapia dialettico-comportamentale (DBT) e la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT).
Ciò che appare più rilevante sottolineare è che molti studi mettono in primo piano l’efficacia di un lavoro psicoterapeutico focalizzato sulla cooperatività all’interno della relazione terapeutica. All’interno di una relazione che funga da base sicura per l’esplorazione della propria storia e del proprio mondo emotivo, il paziente impara a sentire quelle emozioni prima evitate e agite e apprende strategie utili per tollerarle. Attraverso la relazione terapeutica paziente e terapeuta lavorano anche per allargare la gamma di vissuti emotivi cominciando anche a porre le basi per coltivare emozioni positive. Queste costituirebbero delle risorse al quale il giovane paziente può attingere nelle situazioni problematiche ampliando il più possibile il proprio repertorio di soluzioni e maturando competenze resilienti.
BIBLIOGRAFIA
https://www.stateofmind.it/autolesionismo/
Childhood maltreatment and non-suicidal self-injury: a systematic review and meta-analysis, Lancet Psychiatry, 2017.
Morris, C., Simpson, J., Sampson, M., Beesley, F. (2013). Cultivating positive emotions: a useful adjunct when working with people who self-harm. Clinical Psychology & Psychotherapy.