Sempre di più, dagli anni ’90 (Saito, 1998) ad oggi, si sente parlare del fenomeno dell’Hikikomori.
Cosa nasconde questa parola?
Il termine nasce in Giappone e, letteralmente indica “isolarsi, mettersi in disparte”, si riferiva a soggetti, per lo più adolescenti e giovani adulti, che abbandonavano la scuola o il lavoro per lunghi periodi e che non erano altrimenti diagnosticati come depressi o schizofrenici.
Oggi, con il termine Hikikomori, si indica “una patologia diagnosticabile in persone che hanno trascorso almeno sei mesi in una condizione di isolamento sociale, di ritiro dalle attività scolastiche e/o lavorative, senza alcuna relazione al di fuori della famiglia. Il periodo medio di isolamento sociale è di circa 39 mesi, ma può variare da pochi mesi a parecchi anni.”
Solitamente sono giovani di età compresa tra 19 e 30 anni, maschi primogeniti nella maggioranza dei casi, che decidono di rinchiudersi volontariamente in una stanza, evitando qualunque contatto con il mondo esterno, familiari inclusi. Solo il 10% dei soggetti interessati è di sesso femminile e di solito il periodo di reclusione è limitato.
I sintomi della sindrome dell’Hikikomori, descritti da Saito, sono: ritiro sociale, fobia scolare e ritiro scolastico, antropofobia, automisofobia, agorafobia, manie di persecuzione, sintomi ossessivi e compulsivi, comportamento regressivo, evitamento sociale, apatia, letargia, umore depresso, pensieri di morte e tentato suicidio, inversione del ritmo circadiano di sonno veglia e comportamento violento contro la famiglia, in particolare verso la madre.
Il ritiro sociale è il sintomo principale che può manifestarsi con uno spettro di possibilità: da comportamento isolato a soggetti che non abbandonano la loro stanza per mesi o anni. Nei casi più gravi l’Hikikomori non esce dalla sua stanza né per lavarsi, né per alimentarsi chiedendo che il cibo sia lasciato dinanzi alla porta di accesso alla stanza, che può assumere significati contrapposti: o luogo di rifugio, una sorta di “isola protetta”, o luogo di “prigionia”.
L’Hikikomori più avanzato deriva da un disagio sociale che riguarda tutti i Paesi economicamente sviluppati, nei quali si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita. Proprio nel senso di fallimento sociale sono da rintracciarne le cause profonde: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata si sommano pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono troppo distanti dai propri.
Questo luogo, oggi, è infinito: è online ed è wireless, senza fili.
La dipendenza da internet, spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, rappresenti in realtà, una conseguenza dell’isolamento, non la causa. Molti di loro, di qualunque età, sia pure confinati nella loro camera, ne oltrepassano le pareti: si collegano alla rete, sul web, ed entrano in mondi lontani. Nell’impossibilità (psicologica) di far uso del loro corpo, costruiscono un avatar, con il quale intraprendono battaglie epocali e interagiscono virtualmente con milioni di utenti. Il contagio dunque non è causa, bensì concausa accelerata dall’effetto-web.
Si tratterà, nello sviluppo della patologia, di una “adolescenza senza fine”.
I ragazzi, in alcuni casi, non riescono a immaginare sé stessi adulti o hanno l’impressione di non stare crescendo. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sullo Hikikomori, che gradualmente perde le competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative necessarie per interagire con il mondo esterno.
In Giappone, dove per primo il fenomeno è stato definito, è stata data particolare importanza alla particolarità del contesto familiare, in cui cresce un possibile Hikikomori, come fattore di rischio. Questo contesto pare essere caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da una eccessiva proiettività materna. Le famiglie giapponesi sono caratterizzate da una madre psicologicamente e fisicamente vicina ai figli e da un padre piuttosto marginale che non riesce ad inserirsi come terzo elemento e ad allentare il legame esistente tra madre e bambino.
La simbiosi tra madre e figlio è comune nello stile di vita degli Hikikomori: con un atteggiamento esageratamente iperprotettivo la madre tende a gestire in maniera eccessiva la vita del figlio, spesso idealizzato e depositario di molte aspettative. Questo legame simbiotico, spiega il motivo della violenza dell’Hikikomori nei confronti della madre.
Questi giovani reclusi sociali, eremiti, ragazzi spariti, non fanno notizia ai principali canali di comunicazione perché sembrano non esistere a tutti gli effetti.
La famiglia è reticente, tende a non enfatizzare il problema o, a maggior ragione, a non vederlo, riconoscerlo, considerarlo tale.
Il calore della casa diventa quindi, nell’Hikikomori, un freddo mondo parallelo. La cameretta che da sempre accoglie i sogni di questi ragazzi, quelle stesse pareti che garantivano protezione diventano celle e gli effetti di questa prigionia conducono quindi a depressione, suicidio, dissociazione, alienazione, insicurezza, “haterizzazione” (odio in rete), distorsione della propria immagine, comportamenti ossessivo-compulsivi, automisofobia e manie di persecuzione, “autismo selettivo” od “a contesto specifico”, mutismo selettivo, disturbo d’ansia generalizzata e molto altro.
Non esiste una strategia terapeutica univoca per il trattamento dei soggetti Hikikomori, né sono reperibili studi clinici sulla terapia di tali pazienti.
Tra le forme di psicoterapia più utilizzate per il trattamento di questi ragazzi sono indicatela psicoterapia sistemico-familiare e la psicoterapia cognitivo comportamentale.
In generale un approccio psicoterapico “non individuale” garantisce migliori possibilità di successo, in un’ottica combinata che prevede una terapia di esposizione progressiva, una terapia di gruppo e una terapia a supporto della famiglia dell’Hikikomori, si crea una sorta di open membership club, un luogo percepito come sicuro per dar luogo alle interazioni di gruppo.
Bibliografia
Fiorenzo, R., Manola, A., Elisabetta, B., Elisa, F., Francesca, M., Lucia, P., & Marta, S. Adolescenti tra abbandono scolastico e ritiro sociale: il fenomeno degli “Hikikomori” ad Arezzo.
Teo AR et al. Development and validation of the 25-item Hikikomori Questionnaire (HQ-25). Psychiatry Clin Neurosci. 2018 Oct;72(10):780-788. doi: 10.1111/pcn.12691. Epub 2018 Jul 27.