Anna conduce da alcuni anni una vita molto ritirata. In seguito a un periodo caratterizzato da frequenti attacchi di panico, ora vive nella paura di poterne avere degli altri. Ha smesso di prendere i mezzi pubblici e l’automobile, evita di frequentare i luoghi affollati così come gli spazi aperti e lascia la sua abitazione solo se strettamente necessario e accompagnata da un familiare.
Questo è solo uno dei molti casi di agorafobia, un disturbo per il quale un numero sempre maggiore di adulti si rivolge a uno psicoterapeuta per chiedere aiuto.
Sebbene la parola significhi letteralmente “paura della piazza”, nel tempo ha assunto un significato sempre più ampio, rappresentando un disturbo specifico e unitario, che si manifesta anche in assenza del disturbo da attacchi di panico.
Secondo il DSM-5 l’Agorafobia si manifesta attraverso un’intensa paura o ansia rispetto a due o più delle seguenti situazioni:
- utilizzo di trasporti pubblici (per es. automobili, bus, treni, navi, aerei);
- trovarsi in spazi aperti (per es. parcheggi, mercati, ponti);
- trovarsi in spazi chiusi (per es. negozi, teatri, cinema);
- stare in fila oppure tra la folla;
- essere fuori casa da soli.
La valutazione che compie chi soffre di agorafobia in queste circostanze è che potrebbe essere difficile fuggire oppure potrebbe non essere disponibile soccorso in caso di sintomi simili al panico o di altri sintomi invalidanti o imbarazzanti.
A fronte di questa valutazione l’individuo evita, quindi, di esporsi a tali condizioni e quando ciò non è possibile richiede la presenza di un accompagnatore familiare oppure tollera la situazione provando ansia o paura molto intense.
Queste emozioni vengono sperimentate in maniera sproporzionata rispetto al reale pericolo presentato dalla situazione e spesso l’individuo stesso, a posteriori, lo riconosce e si critica per questo, ritenendo le proprie preoccupazioni eccessive.
A mantenere e peggiorare i timori agorafobici contribuiscono, poi, tutta una serie di comportamenti protettivi, comportamenti cioè finalizzati a prevenire proprio gli esiti temuti, ma che, di fatto, non solo si rivelano controproducenti, ma aggravano il disturbo e compromettono la qualità della vita delle persone con agorafobia.
Le situazioni che facilitano l’insorgenza dell’ansia nell’individuo con agorafobia sono principalmente tre: la solitudine, la costrizione e gli spazi aperti.
Ma cosa hanno in comune queste tre situazioni?
Il minimo comune denominatore è rappresentato dalla perdita di controllo, intesa come dissolvimento del senso di sé e della propria agentività: in sostanza, la persona con agorafobia si sente privata della sensazione di sentirsi fautore della propria vita e interpreta questa condizione come catastrofica e irreversibile, temendo, cioè, di essersi trasformata in uno zombi e di aver raggiunto una sorta di “punto di non ritorno” (Gragnani e Mancini 2004, 2008).
Ma analizziamo più nel dettaglio queste tre circostanze.
La solitudine, caratterizzata dall’assenza o dall’indisponibilità delle figure di riferimento, riduce il senso di sé poiché vengono a mancare proprio quelle persone con le quali vi è un rispecchiamento con l’altro: è la mancanza di familiarità, infatti, più che la solitudine a rappresentare una situazione ansiogena in questo tipo di pazienti. Ecco perché in molti casi la figura dell’accompagnatore, una figura, cioè, più familiare che protettiva, svolge una funzione fondamentale, se non risolutiva, poiché il senso di sé in chi soffre di questo disturbo si incrementa attraverso la consapevolezza di una relazione in cui ci si riconosce reciprocamente.
La costrizione rappresenta, invece, una limitazione dell’individuale libertà di agire, intesa non solo come costrizione fisica, ma anche psicologica, come quella di un legame affettivo o di una situazione lavorativa che non consente di esprimersi e agire liberamente. Anche in questo tipo di situazioni la valutazione che caratterizza le persone con agorafobia è quella di vedere ridotta la possibilità di esercitare la propria volontà e agentività.
Gli spazi aperti, infine, implicano una sensazione di disorientamento (pensiamo all’iniziale smarrimento di fronte alla visione di un cielo stellato), dovuta alla mancanza di punti di riferimento che l’individuo con agorafobia interpreta come minacciosa in termini di dissolvimento del sé .
Cosa fare dunque se ci si riconosce in questa descrizione? Rivolgersi a uno specialista è sicuramente un primo passo per alleviare la sofferenza e la terapia cognitivo-comportamentale rappresenta un trattamento estremamente efficace per l’agorafobia poiché, dopo una prima fase dedicata alla ricostruzione e alla comprensione del proprio funzionamento, si interviene sui pensieri catastrofici, sugli evitamenti e sui comportamenti protettivi che aggravano il disturbo.
Bibliografia
American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. DSM-5. Milano: Raffaello Cortina.
Gragnani, A., & Mancini F. (2004). L’indebolimento del senso di sé e la sindrome Agorafobica. XII Congresso Nazionale SITCC “L’evoluzione del cognitivismo clinico: I modelli, i metodi, la ricerca”. Verona.
Gragnani, A., & Mancini, F. (2008). Il Disturbo di Panico e l’Agorafobia. In C. Perdighe, e F. Mancini (Eds.), Elementi di Psicoterapia Cognitiva (pp 85-108). Roma: Fioriti Ed. s.r.l.