Storia di una terapia: dal rifiuto alla comprensione di sé

Ho trascorso gran parte della mia vita a sentirmi prima sbagliata e poi abbandonata per questo mio modo di esser fatta male.

Fin da bambina ricordo di non aver avuto un carattere facile: mia mamma era disperata, non sapeva come comportarsi con me, continuava a ripetermi che mi perdevo in un bicchiere d’acqua e che i miei erano problemi da niente, che con un po’ di buona volontà e pazienza avrei potuto risolverli.

Mi chiedevo allora come fosse possibile che mi stessi sbagliando, come fosse possibile che ciò che sentivo non corrispondesse a ciò che avrei dovuto sentire. Cominciai, giorno dopo giorno, a maturare la convinzione di essere una persona sbagliata in un mondo di giusti, a non fidarmi delle mie emozioni, a cercare di non ascoltarle in quanto cattive consigliere.

Spesso, nel timore di fare o dire la cosa sbagliata, non lasciavo trapelare ciò che provavo, cercavo di mantenere la calma anche se dentro di me sentivo che avrei voluto urlare, ma come potrete prevedere, quando la rabbia superava il limite diventavo un vulcano in eruzione, lasciandomi andare a manifestazioni emotive piuttosto eclatanti, devo riconoscerlo.

Ma che potevo fare? Era l’unica possibilità che avevo di essere ascoltata perché quando provavo a esprimere un mio disagio con calma e pacatezza venivo additata come suscettibile e c’era sempre qualcuno pronto a sminuire e a minimizzare i miei vissuti, mentre quando davo in escandescenza finalmente gli altri si accorgevano di me e prendevano in considerazione il mio malessere.

Crescendo ho iniziato ad avere le prime grandi amiche e i primi grandi amori, ma la sensazione di essere sbagliata era ancora lì, notte e giorno, non mi abbandonava mai. Con ognuna delle persone significative della mia vita mi sono sentita spesso fuori posto, sbagliata, difettosa, maldestra, pazza, strana, esagerata. Ricordo di aver pensato tante volte che allora quella che aveva ragione era mia mamma, non io.

Questo ha fatto crescere le distanze tra me e il mondo e ha alimentato i miei continui dubbi sulla legittimità delle mie emozioni e delle mie sensazioni.

Sono arrivata a odiarmi per questo, perché a causa di questo mio modo di stare nel mondo sono stata rifiutata e abbandonata da persone alle quali tenevo molto, o almeno credevo di tenere.

Mi sono odiata così tanto da essermi anche fatta del male, perché credevo che in me non ci fosse niente da salvare e che non ci sarebbe mai potuto essere.

È stato in seguito a uno di questi momenti che ho deciso di chiedere aiuto a qualcuno.

Il mio incontro con la psicoterapia ha cambiato la mia vita, pur non cambiando la mia persona. La mia terapeuta mi ha detto fin da subito che la personalità è qualcosa con la quale conviviamo per tutta la nostra vita e che non può essere cambiata, ma che possiamo conoscerci, diventarne esperti e accettare con una discreta dose di compassione e benevolenza quello che di noi non abbiamo scelto né possiamo cambiare e imparare strategie più utili per affrontare i nostri “lati oscuri”.

A distanza di un po’ di tempo posso dire che è proprio così. Io non sono cambiata, sento sempre le emozioni in maniera molto intensa, come se avessi uno strato di pelle così sottile da scottarmi con un flebile raggio di sole, ma ora so che questo mi accade perché nessuno si è mai preso cura delle mie emozioni. Mai nessuno mi ha ascoltato dicendomi di capire come mi sentivo o almeno provandolo a capire. Mai nessuno mi ha rassicurata dicendomi che è normale sperimentare delle emozioni spiacevoli. Mai nessuno ha dato un nome a quelle emozioni. Mai nessuno mi è stato accanto in attesa che la tempesta finisse.

Allora ho dovuto imparare a farlo io, a costruire un dialogo interno in cui prendo consapevolezza di quello che mi sta accadendo e lo racconto a me stessa: alcune volte aspetto semplicemente che quello stato svanisca, altre volte utilizzo alcune strategie che ho imparato e che si sono rivelate più utili e funzionali rispetto a quelle che ho adoperato in passato.

Ho imparato soprattutto ad ascoltare le mie emozioni e a fidarmi di loro, a utilizzarle come una bussola per orientarmi nel mondo.

«I “destinati ad essere morti” non hanno certo gioventù splendenti: ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece, Gennariello.»

Pasolini P. P. (1976), Lettere Luterane, Einaudi, Torino

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