Molto spesso ci si chiede come mai nonostante i ripetuti sforzi e l’impiego di svariate modalità, l’ansia non passi o ancor peggio, si presenti costantemente e con maggiore intensità.
È assai comune sentire frasi come “mi preoccupo per tutto”, “non riesco a fare a meno di preoccuparmi”, “qualsiasi cosa è fonte di preoccupazione”, ecc.
L’ansia è una normalissima emozione scaturita da situazioni di pericolo o minaccia che potrebbero verificarsi. Kelly sosteneva che è minaccioso ciò che appare imprevedibile e come tale incontrollabile. In altre parole ciò che spaventa è l’esito finale: “come sarò dopo che tutto ciò sarà successo?” Questo futuro stato del Sè è poco costruito, immaginato, sfocato e incerto e per questo spaventoso.
In termini cognitivi, la tendenza all’ansia è connessa alla percezione della realtà come minacciosa e di sé come incapace a fronteggiare la situazione. Questi due elementi, spingono la persona a ipervigilare continuamente l’ambiente rispetto ai possibili elementi connessi alla minaccia, come un “chi cerca trova”, appena rivela un segnale di possibile pericolo, ne concentra la sua attenzione, trascurando tutti gli altri possibili segnali rassicuranti.
Cosa peggiora le cose?
In primis l’interpretazione a cui è sottoposto lo stimolo minaccioso che tende a sovrastimare sia la possibilità che l’evento spiacevole accada, si la gravità dell’evento stesso.
Quello che risulta peculiare nei disturbi d’ansia e che trasforma l’ansia in un disturbo è che l’attivazione fisiologica e la stessa ansia, divengono a sua volta oggetto di valutazione catastrofica, diventando esse stesse una minaccia.
A ciò ne consegue la risposta che la persona reputa più giusta per poter ridurre il suo stato ansioso. Facciamo riferimento a quelle strategie che sembrano funzionare nel breve termina ma finiscono per mantenere la convinzione di pericolosità e della propria inadeguatezza, contribuendo a sostenere l’ansia stessa.
Le persone ansiose evitano le situazioni considerate pericolose e rimuginano, ripetano nella mente pensieri o immagini di carattere negativo, tanto da perderne il controllo. Nonostante questa modalità venga impiegata con l’obiettivo di tranquillizzarsi o risolvere un problema, ha conseguenze negative al benessere della persona poiché prolunga lo stress e contribuisce ad acuire sintomi tipici dell’ansia (insonnia, somatizzazione, tensione muscolare, irritabilità, difficoltà di concentrazione, memoria, attenzione), prolungando l’ansia anche oltre il momento in cui si affronta l’ostacolo.
La principale caratteristica distintiva tra “normali” preoccupazioni e ruminazioni patologiche è il significato assunto per la persona, non il loro contenuto (Sassaroli).
La preoccupazione è un fenomeno comune nella popolazione generale. Tuttavia, quando diventa eccessiva, incontrollabile e cronicamente presente, induce disagio emotivo. A livello cognitivo, l’eccessiva preoccupazione rappresenta la caratteristica diagnostica fondamentale del Disturbo d’Ansia Generalizzato, GAD, caratterizzato da ansia eccessiva, preoccupazione cronica e persistente in diversi ambiti della vita, associate a sintomi somatici e psicologici come irrequietezza, tensione muscolare, disturbi del sonno, ecc.
Il non Preoccuparsi per i pazienti ansiosi ne rappresenta un problema poiché in questo modo si ha la sensazione di perdere il controllo e l’impossibilità di prepararsi al pericolo.
Il problema sta nel dispendio eccessivo di energie, nel tempo utilizzato a farlo, mantenendo un costante stato di allerta che da conseguenze negative nelle varie sfere della vita.
Vi sarà successo varie volte di rimuginare, di pensare e ripensare ad un problema che vi affligge fino a farvi venire il mal di testa. Immaginate di mettere in atto questa modalità di pensiero per giorni e giorni, quale sarà il risultato?
L’ansia non passa e in più si ha uno stato generale di malessere.
Il rimuginio è sostenuto da meta-preoccupazioni. La metacognizione rappresenta la conoscenza e consapevolezza del funzionamento della propria mente . In tal senso, le “credenze metacognitive” non sono altro che le motivazioni con cui le persone spiegano a loro stesse la propria tendenza a rimuginare, come la convinzione che sia utile, oppure la convinzione che non sia possibile fermare il rimuginio vivendolo come una sorta di automatismo al di fuori del proprio controllo.
Rimuginare è percepito come un processo automatico, incontrollabile, dannoso da far impazzire. È per questo che quando la persona dice, “mi preoccupo di tutto!” ha proprio ragione. Nel GAD, ci si preoccupa anche di preoccuparsi. Sembrerebbe un gioco di parole ma il fatto di rimuginare diventa esso stesso fonte di preoccupazione dal momento che il paziente sente di non riuscire a controllarlo e ne sperimenta conseguenze negative.
In risposta vengono messi in atto tentativi per respingere la preoccupazione disturbante con effetto di aumentarne la frequenza e intensità. Tuttavia è stato dimostrato che non pensare a qualcosa ne determini il risultato opposto. (Sassaroli).
E’ possibile sperimentarlo su se stessi:
- “chiudete gli occhi e provate a non pensare ad un elefante rosa”
- Quale sarà il risultato?
Quello che state facendo è sopprimere l’immagine. Finche ci proverete, essa tornerà imperterrita nella vostra mente.
Allo stesso modo più si cerca di eliminare un pensiero, maggiore sarà la sua presenza. In tutto ciò ha un ruolo fondamentale l’attenzione che si continua a dare a quello stimolo, nonostante ci sia alla base un desiderio di liberazione.
Ecco come mai non si riesce a smettere di preoccuparsi e soprattutto come mai emergono sintomi sempre più importanti e invalidanti.
Fortunatamente sono numerosi gli studi in questo campo dai quali è stato possibile mettere appunto un protocollo terapeutico specifico per GAD e rimuginio.
La terapia Cognitivo Comportamentale e nello specifico, la terapia metacognitica, rappresenta il trattamento d’elezione. Adrian Wells, suo fondatore, diceva che il trattamento deve essere soprattutto un riaddestramento attenzionale a non rimuginare.