Dal mito del gentiluomo allo stereotipo del “malessere”
A livello sociale e relazionale esiste una sorta di codice implicito rispetto alle aspettative che i “generi” hanno tra di loro. Ora, per fortuna, il movimento LGBTQ+ ha un po’ reso più “fluide” le nostre convinzioni e le nostre anticipazioni, nondimeno una buona parte delle relazioni omosessuali ed eterosessuali continua a muoversi su quel continum che rappresenta il modo di stare in relazione fra uomo e donna. Questa riflessione mi è venuta in mente pensando ad una serie tv che ho recuperato di recente e poi, in modalità “binge eating”, finito in tempi record mettendomi in pari: parlo di Bridgerton, una serie tv ambientata in una Londra del primo decennio dell’ottocento, molto frivola, civettuola e chiacchierona dove i protagonisti sono i componenti di una famiglia, il ceto sociale alto/borghese e la corte reale. Nella letteratura inglese ed Europea dall’età Vittoriana, passando per il Romanticismo fino al neoclassicismo il topos letterario del gentiluomo è sempre ben presente: si tratta di una sorta di concetto stereotipato che descrive un uomo benestante di buona famiglia, con sani principi morali, educato, colto e ben istruito che ha dei doveri ben precisi nei confronti della famiglia e della società. Si tratta di un concetto così interiorizzato e condiviso da essere esistente di per sè, non solo come caratteristica della cultura di riferimento ma come vero e proprio concetto trascendentale, una specie di implicito. A me viene l’ipotesi che si tratti di una costruzione sociale di quel periodo storico.
Tornando al 2024, per me è stato molto divertente pensare alla situazione attuale e fare il confronto tra questo topos del gentiluomo e la moderna concezione dell’uomo medio (tra i 30 e i 45 anni) e di come a livello sociale sia tutto molto molto diverso. La premessa importante nella lettura di questo articolo è quella di comprendere che la mia è una semplice riflessione, – ribaltabile in maniera speculare anche al genere femminile con le dovute precisazioni – è che il mio intento è quello di condividere una riflessione sociologica di come si sia passati al gentiluomo al “malessere”.
Descritto il gentiluono ora tocca alla costruzione sociale del malessere
Le nuove generazioni sui social definiscono in questa maniera gli uomini che tra le loro peculiarità si caratterizzano come immaturi, poco consapevoli dei propri sentimenti, che non vogliono impegnarsi in relazioni stabili e che spesso vivono ancora un legame di dipendenza affettiva importante con la mamma e la famiglia d’origine.
Parlando di stereotipi è facile generalizzare, io sono comunque convinta che ci sia di più: un po’ penso che la situazione economico/lavorativa e l’educazione influiscano molto sulla famosa riflessione del “come sarò da grande” perché l’essere grandi arriva più tardi. Si diventa economicamente autonomi più tardi, chi riesce a acquistare una casa lo fa con più calma, la stabilità economica non è affatto scontata e il fatto di poter contare sulla famiglia d’origine è un buon incentivo a prendere le cose con più calma. E così anche le relazioni significative con un compagno. Per la vita frenetica che conduciamo e anche per una sorta di maggiore attenzione al culto di sé stessi, si ripropone un copione relazionale per cui, aldilà degli accettabili e vari difetti di ognuno, ci sia una grandissima fatica ad entrare in una fase di investimento – per investimento si intende la quantità di impegno in termini di sogni, speranze, risorse fisiche ed emotive – e una sosta maggiore in una fase si osservazione e valutazione (detta circospezione) delle possibilità che ci vengono proposte. Come se la relazione abbia acquisito l’implicito significato di essere troppo impegnativa. Così le nuove generazioni (non si parla di una percentuale allarmante, per fortuna) sono molto concentrate nel fare esperienze nuove, di ogni tipo, nell’esplorazione di tutte le possibilità a disposizione senza poi fare il successivo passaggio dello scegliere chi o cosa ci piace e impegnarsi in un progetto condiviso. Come se fosse la relazione stessa ad essere vissuta come minacciosa e ci fosse una maggiore concentrazione sull’esito piuttosto che sul percorso.
Tutto questo mi fa pensare che, aldilà dei cambiamenti economici significativi di cui parlavo prima, anche il modo di vivere la vita e le relazioni si sia un po’ conformato ad una sorta di modello sociale prestazionale che pone domande retoriche a priori del tipo: ne varrà la pena? E se soffro? E se finisce? Lasciando poco spazio all’audacia, alla fiducia nell’altro e alla “sconsideratezza” tipica dell’amore che ci porta alcune volte a fare più scelte di pancia che di cognizione.
Bibliografia
Epting Franz – Psicoterapia dei costrutti personali
George A. Kelly – La Psicologia dei costrutti personali
Filmografia
Bridgerton, serie Netflix, stagione I,II,III