La sveglia come ogni mattina mi annuncia l’inizio di un nuovo giorno, in verità lo annuncia da un po’, ma io faccio finta di non ascoltare quelle note. Decido che è giunto il momento di alzarmi, non ho dormito, troppi pensieri e ancora una volta del mio sogno ricordo solo due grandi fari lampeggianti di un giallo intenso, così accecanti da non permettermi di vedere ciò che è attorno a me, siamo io e la luce. Mi capita frequentemente di non riuscire a riposare bene la notte, il giorno seguente mi rendo conto che una semplice ora in più sarebbe bastata a restituirmi un po’ di energie.
Faccio colazione velocemente, preparo un bagno caldo per poi scegliere cosa indossare per l’appuntamento di questa mattina. Faccio tutto, ma lo faccio meccanicamente, i miei pensieri sono altrove, la mia testa non è qui, il mio corpo non lo sento qui, è seduto su di un sedile di fronte a due grandi fari che mi accecano. Esco di casa, l’androne del mio condominio è molto buio, l’impianto elettrico è ancora in manutenzione, apro il portone e una calda luce mi accarezza il viso. Vorrei poterla considerare una dolce carezza, ma per me altro non è che un ricordo, un ricordo doloroso, un faro che mi rende cieco, come quella notte di quattro mesi fa. Metto una mano sugli occhi come per proteggermi, mentre aspetto che arrivi mio padre per accompagnarmi.
Salgo in macchina, è un grande sforzo per me sedermi anche solo al sedile del passeggero, mio padre mi sorride e io provo a ricambiare la sua felicità nel vedermi. Durante tutto il viaggio, non sono a mio agio, vorrei tanto uscire da quell’auto, ma resto, resto perché questo è il lavoro che ho iniziato su di me, per me. Penso a quante volte ero io stesso a portare papà agli appuntamenti di lavoro, alle partite di calcio del venerdì sera, ora mi sento a disagio anche solo ad entrare in una vettura, lo spazio si restringe attorno a me e l’unica sensazione che riesco a sentire è la paura che parte dalle gambe e arriva fin sulla testa, sotto la forma di immagini ricorrenti e chiare di quella notte di quattro mesi fa. Quel brutto incidente mi ha segnato, lo sento sulla pelle, nel mio corpo, mi sento come se avessi perso irrimediabilmente un’abilità per me funzionale, quella di guidare, di essere autonomo ed indipendente.
Ogni frenata, ogni piccolo dosso, presente sulla strada, ogni suono di clacson vicino e lontano, per me è come se fosse un ritorno a quella notte, ogni rumore lo avverto come amplificato, ogni mio senso è orientato alla ricerca e al disvelamento di ogni percezione anche minima di pericolo. “Resto qui”, mi ripeto spesso queste semplici parole che per me sono energia, sono calore, sono la prova che posso farcela. Mentre penso tutto ciò, la macchina si ferma, eravamo giunti a destinazione, un grande edificio che per me simboleggia rinascita. Salgo velocemente le scale e arrivo in fretta all’interno tre del terzo piano. Nonostante le mie gambe siano un po’ deboli e il mio respiro un po’ corto, suono il citofono e dopo pochi secondi la porta si apre delicatamente; il mio terapeuta si mostra sull’uscio, mi accoglie con un sorriso, io lo ricambio dicendogli con voce tremante “ce l’ho fatta, sono un passo più vicino al volante”.
Il disturbo Post-Traumatico da Stress è una condizione invalidante che si sviluppa dopo l’esposizione a un evento traumatico. È caratterizzata da pensieri intrusivi, incubi e flashback; evitamento dei ricordi connessi al trauma; cognizioni e umore negativi; ipervigilanza e disturbi del sonno.
I protocolli CBT centrati sul trauma nel PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) si avvalgono in maniera mirata e specifica di interventi basati sull’esposizione. Tali interventi si basano su due principi fondamentali, quali l’abituazione e il processamento dell’informazione. Per abituazione si intende la riduzione dell’ansia dopo l’esposizione prolungata, mentre il processamento dell’informazione sottende alla rivalutazione della vecchia informazione e la costruzione di una nuova, alternativa e funzionale nella memoria del trauma. L’esposizione può essere effettuata in forma immaginativa e in vivo, dove al paziente viene chiesto di raccontare più volte, nel dettaglio, l’evento traumatico, fino a quando la risposta emotiva e fisiologica non diminuisce gradualmente, oppure viene chiesto di affrontare attraverso step concordati situazioni sicure che tuttavia generano la paura associata al ricordo legato al trauma.
Tali interventi mirano alla riduzione dei comportamenti di evitamento delle situazioni ed esperienze temute che fungono da fattori di mantenimento nella risoluzione della difficoltà e del disagio personale. L’evitamento, da comportamento adattivo per la sopravvivenza, in quanto riduce la possibilità di incorrere in un pericolo, diviene un aspetto cruciale nella sofferenza in quanto riduce l’orizzonte funzionale della persona e la possibilità di avere una vita piena, ricca e significativa. L’essere “un passo più vicino al volante” altro non è che il frutto di un lavoro condiviso e strutturato, secondo obiettivi a breve e lungo termine, dove la persona riscopre la propria capacità di auto-determinarsi nelle situazioni temute e ritornare gradualmente a riscoprirsi come parte attiva del proprio cambiamento.